giovedì 8 luglio 2010

Norma di Bellini by Cecilia Bartoli: riflessioni, parte I

I baroccari sferrano l’attacco decisivo al belcanto italiano per il tramite di Cecilia Bartoli, che, dopo la mistificazione operata sulla mitica figura di Maria Malibran, approda alla Norma di Vincenzo Bellini, mistificando, o tentandovi, quella altrettanto mitica di Giuditta Pasta.
Baroccara” la signora Bartoli, definiamola con esattezza e precisione una buona volta!

Baroccara”, perché si definisce “baroccaro” chi canta con tecnica da falsettista, emettendo suoni non immascherati ed appoggiati sul fiato, senza poter dare risonanza alla voce per espanderla nello spazio e vocalizzando rapidamente senza vigore, in bocca. Una tecnica mai codificata nei trattati di canto, nonostante le forzature e le manipolazioni lessicali che alcuni studiosi, per lo più francesi ed inglesi, hanno operato sulla lingua italiana del XVIII secolo, Mancini e Tosi in particolare. Una tecnica che è manifestamente l’antitesi di quella del Garcìa e poi del Lamperti tecnica su cui si fonda la tradizione del belcanto italiano, derivata a su volta da quella dei castrati ( castrati, e non falsettisti, si badi bene! ), maestri ed esempio dei grandi cantanti da Rossini in poi.
“Baroccara” nonché vero e proprio cavallo di Troja della koinè baroccara anglofrancese nel nostro repertorio italiano, ideale alleata perchè di nazionalità italiana, apparentemente di cultura italiana, con un grande curriculum di performances con le più grandi e blasonate bacchette, da Abbado a scendere. Il suo pedigree è robusta garanzia di qualità e credibilità di fronte al grande pubblico per ogni sua affermazione verbale e vocale, la carta di credito universale per la strumentale rivisitazione della storia del canto e della sua tradizione a favore della nouvelle vague antiquaria.

Il fatto che una simile voce si cimenti sul must del belcanto tragico ( collochiamo Norma nel belcanto per comodità di scrittura, anche se una definizione rigorosa di “belcanto”le si adatta solo in parte….) stigmatizza i tempi moderni, l’incultura e l’aggressività del managment discografico. L’evento si fonda sull’accoppiata dei due nomi, protagonista e titolo, e propone l’improponibile: “ se la và, la g’ha i gamb!” ( cioè “se và, ha le gambe!”) è il motto. Ossia, se il pubblico se la digerirà, si aprirà una nuova fetta di mercato, quello dell’opera tragica, per starlette di ogni tipo dalla microbica voce e tutti, falsettisti in primis, potranno cantare tutto. La formula della star discografica universale, collocata su 10-100 titoli popolari soprattutto, troverà nuovo vigore. In fondo, diciamocela chiara, i “baroccari “ si cimentano con un repertorio che è di nicchia, specialistico, amato soprattutto da un pubblico giovane, cresciuto con un’estetica musicale e vocale completamente diversa dal pubblico che ha assistito a tutta o parte della belcanto renaissance. Non parliamo poi del resto del repertorio! Verdi non fa “fine”, né “culturale”; Puccini è tremendamente demodè…Però con Vivaldi & friends i discografici non riescono a fare lo stesso business che si fa con titoli del cosiddetto repertorio, è certo! Dunque, eccoci qui al cospetto della signora Bartoli novella Norma del terzo millennio, portatrice di una “rivoluzione culturale”, stando ai proclami degli uffici stampa che il web ci rimbalza in questi giorni, tale per cui da ora in poi Norma non potrà più essere cantata come prima (“Die Norma, die alle kennen, ist die der 1950er Jahre, die der Callas, von Montserrat Caballé und Joan Sutherland..“).

Una “filologia” strumentale e strumentalizzata ci propone le immancabili note storiografiche a corredo e supporto dell’operazione. Una “modernità” impropriamente intesa è il vessillo della mistificazione, che si incentra sull’affermazione chiave che la Norma sarebbe stata scritta per un mezzosoprano, perchè tale sarebbe stata la prima interprete, Giuditta Pasta ( “Aber Bellini hat die Norma für einen Mezzosopran, Giuditta Pasta, geschrieben“, betont Cecilia Bartoli: „Wir singen das, was Bellini wollte“. Deshalb singt sie die Casta Diva-Arie auch einen Ton tiefer, in F-Dur. Das Finale des ersten Aktes wird in einer Neufassung zu hören sein, auch die Bläsereinleitung zum zweiten Akt.“) e strumentalizzando la vicenda dell’abbassamento della cavatina dalla tonalità da sol maggiore a quella di fa maggiore, operata da Bellini alla prima milanese.

Vorremmo vedere un mezzosoprano vero alle prese con la scrittura di una Niobe di Pacini ( ricordate il recente ascolto propostovi dalla voce di June Anderson?), della Medea in Corinto di Mayr, o dell’Ugo Conte di Parigi di Donizetti, come anche della Donna Anna di Mozart. Quanto poi agli esiti che può sortire un mezzosoprano vero, modernamente inteso, che approcci il ruolo di Norma cantando secondo la “vera tecnica italiana” (tornando a chiamare con il suo vero nome la tradizione di Garcìa), gli audio di due grandi cantanti per definizione di voce anfotera, Grace Bumbry e Shirley Verrett, non lasciano molti dubbi in merito. Si accentano con facilità i recitativi ed i momenti tragici di scrittura centrale, ma si stenta in quelli di coloratura o si è poco levigate nella cavatina…Certo, le vocalità di queste cantanti non si possono paragonare a quella della signora Bartoli, che non ne possiede né l’estensione né il tasso tragico, vuoi per colore, vuoi per pienezza di armonici, vuoi per volume. Se poi passiamo a documenti sonori che non hanno avuto seguito in teatro, ci ritroviamo alle prese con mezzosoprani come Ebe Stignani, che incise soltanto la “Casta diva”, il cui peso vocale è immensamente superiore a quello della nostra diva baroccara, a meno che la signora non intenda anche sostenere che la Stignani non sapeva cantare gli acuti del mezzo ( nell’incisione né dà una prova eccellente direi ), ne emerge con chiarezza che tanto mezzosoprano, inteso in senso moderno, la Pasta non potesse essere.

Falso che la Pasta fosse un mezzosoprano, sebbene abbia cantato opere scritte per mezzosoprani. Falsante l’affermazione dell’esecuzione in fa della cavatina, prassi esecutiva tradizionale e consolidata da sempre, tanto da essere la tonalità contenuta nello spartito Ricordi in commercio. Falsante l’affermazione che l’abbassamento effettuato da Bellini derivi dalla natura di mezzosoprano della prima esecutrice e non da un comodo riaggiusto della prima scrittura chiesto, come da altri esecutori prima di lei, all’autore ( sarebbe come affermare che Rubini si fece abbassare per ben due volte la parte di Elvino perchè era un baritenore, e non perchè la scrittura era esageramente acuta, inumana anche per lui, tenore contraltino per definzione... ).
Amene chiacchiere quelle della signora Bartoli, che dimostra solo di non conoscere a dovere la storia, o per lo meno, di soffrire di una comoda presbiopia che le impedisce a tratti la lettura delle fonti. Di Giuditta Pasta soprano scrisse un paio d’anni or sono Donzelli agli albori del nostro giornalino, nella disamina delle apparentemente contrapposte Amina e Norma.
In sintesi quel pensiero:
a) la Pasta veniva definita contralto nella prima parte della carriera, quando cantava oltre che Desdemona ed Elena di Dhu, Cenerentola, Rosina, e soprattutto Arsace di Aureliano in Palmira, Tancredi ed Armando del Crociato in Egitto
b) dal 1829 in poi venne, come altri contralti (la Unger, Giuditta Grisi) soprano, canto per lo pù parti di soprano, salvo poi ripiegare di nuovo su ruoli di cosiddetto contralto, ma nella fase finale della carriera. Diciamo dal 1833 in poi...
c) Del contralto la Pasta, però, non affrontò alcuni ruoli tipico come Arsace, Malcolm, Calbo e Falliero. Anzi esplicitamente ricusò gli accomodi, cui Rossini in persona si era dichiarato disponibile per il ruolo di Arsace di Semiramide.
d) Possiamo anche documentare che in ruoli di nominale contralto, quale Tancredi ricorresse a generosi trasporti verso l‘alto ed alla sostituzione delle parti più segnatamente contraltili. Anni or sono Roland Mancini ebbe a riferirmi che nella Cenerentola la Pasta preferisse evitare note inferiori al si nat 3.
Come sempre Rossini fu il più fido documentarista delle voci per cui scrisse. Basterebbero le scritture ad hoc per la divina in occasione la Corinna del Viaggio a Reims oppure il recente discoperto finale parigino di Zelmira per capire e smentire la signora Bartoli. Emerge, infatti, come si trattasse di voce con spiccata propensione al canto aulico o tragico in zona centrale, in tessitura più bassa di quella dei cosiddetti “soprani assoluti” (alla Manfredini Guermani prima interprete di Amenaide, per intenderci, o alla Cinti Damoreau, prima Folleville del Viaggio a Reims), ma più alta di quella dei contralti, compresi i cosiddetti “contraltini” alla Righetti Giorgi, che comunque sapevano scendere a note gravi, come il sol sotto il rigo, che nelle scritture pensate per la Pasta non compaiono. Alla sua voce, inoltre, si addiceva una vocalizzazione meno minuta di quella congeniale ad una Colbran, ad esempio, ma sempre di slancio, anzi “di forza”. A questa caratteristiche si attenne anche Donizetti per la Bolena (raccontano i fans della Maria che la stessa all’epoca della ripresa scaligera dicesse “la xe basa”) e Bellini per la Beatrice di Tenda, dove certamente tenne conto della superata freschezza vocale della Giuditta.
Quindi quella che era la qualità vocale della Pasta è evidente ed indiscutibile dalla parti scritte per lei o di cui (è) documentato l’adattamento. Il quadro sarebbe ancor più completo ed indiscutibile se possibile l’esame degli accomodi praticati dalla cantante in molti spartiti, i rossiniani in particolare.
In genere poi i sostenitori ad ogni costo dei tempi nuovi utilizzano altre funeste argomentazioni per accreditare le proprie opinioni. Con riferimento al debutto della Bartoli possiamo leggere in puro stile “morte al passato”: “Lasciamo perdere l'archeologia vocalistica. Certo: anche la creatrice della parte, Giuditta Pasta, era un mezzosoprano (anzi, un ex contralto) ma come cantassero davvero lei o Maria Malibran non lo sappiamo né lo sapremo mai, e in ogni caso poco importa, perché nel frattempo è cambiato tutto: le orchestre, i teatri, il diapason, la sensibilità e perfino le nostre orecchie (già: cos'era un suono «piano», nel 1831? Cosa un «forte», per gente che non aveva mai sentito un concerto rock, o un antifurto?). Quel che conta è avere un'idea di Norma oggi…”( A. Mattioli, in: La Stampa,1/7/2010) .
Tutto falso o quasi perché l’unico aspetto che non possiamo veramente sapere è quanto fosse il volume di questi cantanti in teatro. Invito, però a leggere Monaldi, nel suo “Cantanti celebri”, per smentire, con la disamina della vocalità di Giorgio Ronconi attivo a partire dal 1830, l’interessata fola che in generale avessero voci piccole.
Per il resto, ossia per come nell’800 si “mettessero” i suoni, abbiamo, dato inconfutabile, le registrazioni degli albori del disco che una cosa chiara ci dicono ovvero con quale imposto vocale cantassero proprio la “Casta diva” cantanti di carriera ottocentesca o di insegnamento rossiniano. Si tratta di Adelina Patti, Lilli Lehmann e Rosa Raisa. Sono solo un esempio e non sarebbero le sole.
Una cosa è certa, che nessuno scrisse con riferimento a questa cantanti, soprattutto le prime due, che la loro tecnica ed il loro gusto non fossero in completa e totale assonanza con quello delle cantanti delle generazioni precedenti coeve alla nascita di Norma o per averle avute compagne di scena ( come accadde per la Patti con Giulia Grisi ) o maestre ( come la Raisa con la Marchisio ) o indiscusso e dichiarato modello ( la Lehmann con la Titjens )

La questione di filologia vocale deve essere ribaltata da parte di noi seguaci ormai indifesi della scuola di Garcia. Domandiamoci, al contrario, se la signora Bartoli avrebbe mai potuto definirsi mezzosoprano agli inizi del XIX secolo come pure alla luce della successiva tradizione del canto italiano. E con una battuta umoristica potremmo rispondere affermativamente, perché nell’800 la primadonna con voce grave si definiva “contralto”, mentre “mezzosoprano” era sinonimo di seconda donna, e con tecnica e voce da comprimaria la Bartoli canta. Al di là della facezia e con le premesse di cui sopra la signora Bartoli non avrebbe potuto stare né con i contralti profondi né con quelli acuti, non avendo né il corpo di voce sul centro, né l’estensione, nei gravi come negli acuti, né l’agilità di forza, né la forza dell’accento di tutte le primedonne su elencate. La signora Bartoli ha cantato la Cenerentola come il Barbiere, ad esempio, ma il punto ineludibile è il come le abbia cantate, ossia senza agilità di forza alcuna, con una voce striminzita, esangue, priva di armonici e con poca risonanza. Dell’accento non vorrei qui discutere, ma anche su quello vi è davvero molto da criticare e da censire rispetto ai dettami del canto rossiniano. E, per assurdo, le voci di genere larmoyant o da opera buffa come avrebbero dovuto essere, quanto più chiare e leggere di quella della signora Bartoli qualora questa fosse stata effettivamente voce da genere tragico e coturnato come Norma? Voci di quale proiezione ed ampiezza, in grado di riempire quali teatri? il Piermarini forse? o il San Carlo di Napoli?....
Ragionamento questo che ci pare inoppugnabile, salvo dimostrare l’indimostrabile, visti quei poco lusinghieri ascolti (per la signora Bartoli!), ovvero che la tecnica del Garcia, intesa come tecnica che consolida e raccoglie un secolo di tradizione e che per un altro egual periodo gode di indiscussa applicazione e propagazione, non sia mai esistita e non fosse la tecnica con cui proprio le sorelle del Garcia avessero cantato e che avesse formato la sopravvissuta Pauline Garcia Viardot, una volta insegnante, una lunga schiera di cantanti, che arriva per via solida ed indiretta sino a Siegrid Onegin per il tramite di Margarete Siems.

E così ora buona parte della critica, dopo aver sostenuto una mistificazione della medesima entità sulla Malibran e prima ancora su alcune parti di Rossini ( vi ricordate il nome di quel critico che scrisse, e con lui anche altri entusiasti del suo pari, che la Cenerentola della sign.Bartoli poteva stare a fianco di quella della sign. Berganza?.....), si ritrova in imbarazzo, o al più a far spallucce ("Però l'opera è come la Chiesa cattolica: oltre alle Sacre scritture della partitura, ha valore normativo anche (anche, non solo) la tradizione. Allora sarà anche bieca vociomania, ma quando si arriva a «Oh, non tremare o perfido» o «I romani a cento a cento» si avverte che il volume scarseggia. Le note ci sono tutte, il «peso» vocale no. Sembra uno di quei quadri incompiuti dove il pittore ha tracciato le linee delle figure ma non ha fatto in tempo a «riempirle» con il colore. E hai l'impressione di non avere davanti Norma, ma la nipotina di Norma", A.Mattioli,in: ibidem) , di fronte al più estremo, sfacciato ed improponibile degli azzardi della signora, che non è di minore entità rispetto ai precedenti solo perché attacca l’opera tragica e non più quella buffa o una figura leggendaria del canto. Bastava conoscere un poco la storia della vocalità e non farsi prendere la mano dalla smania di adeguarsi alla moda corrente o alle veline delle case discografiche, anziché scrivere senza una riflessione critica sul canto, la sua tradizione ed suoi protagonisti.
Secondo il nostro Corriere, a questo punto coerenza vuole che chi l’ha sostenuta fin qui, vada ora avanti a farlo, perché la signora, nelle sue manipolazioni è, al contrario di loro, coerentissima! La sua Norma è come la sua Pasta, la sua Malibran, la sua Angelina e la sua Fiorilla, sono tutte identiche: mistificazioni purissime!

Continua.......( l'argomento Norma non è ancora esaurito !)

Gli ascolti

Bellini - Norma

Atto I


Sediziose voci...Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna - Adelina Patti (1905), Lilli Lehmann (1907), Rosa Raisa (1922), Ebe Stignani(1942), Shirley Verrett (1976), Grace Bumbry (1978)

Ma dì l'amato giovane...Oh! Di qual sei tu vittima...Vanne, sì, mi lascia indegno - Shirley Verrett (con Joy Davidson & John Alexander - 1976), Grace Bumbry (con Josephine Veasey & Pedro Lavirgen - 1978)

Atto II

Mira, o Norma - Margarethe Siems & Gertrud Forstel (1908)

In mia man alfin tu sei - Shirley Verrett & John Alexander (1976), Grace Bumbry & Ruben Dominguez (1980)

Meyerbeer

Le prophéte

Atto IV


O prêtres de Baal - Sigrid Onegin (1929)

33 commenti:

germont ha detto...

Ho apprezzato davvero moltissimo questo post: una disanima completa, interessante, inoppugnabile. chissà se qualcuno degli autori citati dalla grisi (che, come dimostrato,sono lettori di questo corriere) ha il coraggio di rispondere, suffragando in modo altrettanto adeguato le sue affermazioni?

Semolino ha detto...

E' completamente errato parlare di tecnica del Garcia poichè il Garcia non ha inventato nessuna tecnica. La definizione di "tecnica del Garcia" la si sente spesso sulla bocca dei direttori d'orchestra baroccari per metterla in antagonismo colla tecnica del canto "barocco" e questo semplicemente perchè costoro, da emeriti ignoranti quali sono, un trattato di canto non l'hanno mai letto in tutta la loro vita. Il Garcia non fa nient'altro che codificare e cristallizare una tradizione plurisecolare che lo precede. Se si leggono attentamente tutti i trattati e gli scritti sul canto a partire dal 1500 fino al Garcia partendo da Zacconi e passando per Caccini, Monteverdi, De Bacilly, gli inteventi di Rameau sul Mercure de France, Tosi, Mancini, per citare, in ordine cronologico, solo i più celebri, ci si può rendere conto che tutti parlano diversamente dello stesso modo di emettere la voce, parlano tutti della stessa tecnica, il Garcia é soltanto colui che ha cercato di descrivere i parametri principali della tecnica del canto in maniera forse più scientifica tutto quì.

Si parla tanto di canto barocco, direttori d'orchestra come Jacobs, Curtis, Christie hanno formato cantanti, tenuto masterclass sul canto barocco affermando le oscenità più strampalate e gli strafalcioni più fantasiosi, ma nessuno di loro cita le fonti, assennano solo affermazioni, deduzioni, ma nessuna fonte.
Ho cercato dappettutto ma non esiste nessuna bibliografia su cui i baroccari basano il loro modo di fare cantare il repertorio del 1600-1700 e a cui vorebbero annettere anche il primo ottocento. Anche perchè le fonti non farebbero altro che contraddire proprio quello che loro affermano.
A cominciare dall'uso del falsettista a cui si ebbe ricorso nella musica sacra per un divieto alle donne di cantare in Chiesa. Ma non appena si ebbero a disposizione i primi castrati il successo fu totale e i falsettisti vennero espulsi da chiese e cantorie e mai nessun falsettista calcò le scene di un teatro d'opera, lo stesso Caccini nel 1601nella Prefazione delle Nuove Musiche parla di loro affermando che dai falsettisti non può nascere nobiltà di buon canto come invece nascerà da una voce naturale.

Giulia Grisi ha detto...

Caro Germont
più che altro mipiacerebbe che rispondesero alla Bartoli.
Quello che mi impressiona maggiormente è come alle affermazione antistoriche di baroccari e cantanti e filologi da strapazzo, la critc risponda sempre o colsilenzio o con il mettersi prona..
Insomma, nessuno ha argomenti o nessuno li vuole avere?

germont ha detto...

o, semplicemente, non conviene loro averne ;-)

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma certo cara Giulia, la critica ufficiale (quella che chiamo "critica acritica") non risponde mai nel merito della questione, motivando con documenti e prove gli assunti di cui magnifica le sorti. Basta leggere le riviste di settore (tutte schierate a favore dell'eurosbobba baroccara): ogni recensione, ogni articolo, ogni intervista è occasione per deridere o attaccare le voci contrarie ai fautori del barocco "baroccaro"! I vari Mattioli, Giudici etc (coloro che si sono assunti il compito, o la missione, di difensori d'ufficio o profeti, dell'attacco baroccaro alla NOSTRA opera lirica) preferiscono scagliarsi contro la "retrovia culturale dell'Italia" o denunciare come chi nega legittimità all'uso indiscriminato di falsettisti e controtenori "sia la dimostrazione di come la madre dei cretini è sempre incinta, e in italia più che altrove". Mai, dico MAI, rispondono alle accuse con argomenti. Per un semplice motivo: NON SANNO COSA DIRE! L'attacco al belcanto (e poi scommettiamo che tocca al primo Verdi?) è motivato esattamente da ciò che l'articolo denuncia: è una moda, un'ideologia, una scappatoia. Purtroppo ha fatto proseliti in determinati ambienti (tra gli appassionati del barocco, o tra i più giovani frequentatori dei teatri, tra gli esterofili a tutti i costi, o nei salotti più chic). Mala tempora currunt!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Una cosa però mi manda in bestia: l'equazione pretestuosa e menzognera per cui si pone un'alternativa tra baroccari attenti alla prassi autentica e beceri passatisti ottusi che aspettano solo 4 acuti e una cadenza! Questo è inaccettabile: la filologia non è appannaggio dei baroccari, anzi! I baroccari sono i primi a tradirla e a rivoltarla come più gli piace e più gli è comodo! Dalla Bartoli in giù è un trionfo dell'antifilologia...data in pasto a sprovveduti entusiasti che credono e si illudono che questa "roba" sia filologia!

Semolino ha detto...

Secondo me Richard Bonynge è stato un autentico filologo.
Quali altri lo sono stati?

daland ha detto...

Fantastico il cartello "Fuori Norma". Come si fa - per legge - con le sigarette, bisognerebbe obbligare i produttori ad esporlo sulle locandine e a stampigliarlo sui CD!

scattare ha detto...

Siete bravissimi e avete ragione, come sempre!
Purtroppo (o per fortuna...) l'argomento Norma non sarà mai esaurito, come tante altre cose.
Se fossi più informato e più "verbale", le cose che non scriverei...!
Non è così però.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Eh sì, Semolino...lo volevo citare pure io. Bonynge è stato un vero filologo perchè ha recuperato - in un'epoca che spianava senza pietà ogni agilità e virtuosismo e ometteva tutti i da capo (l'epoca dei Serafin, dei Gavazzeni) - un certo stile e una prassi autentica: veramente autentica. Basta pensare al lavoro fatto con Maria Stuarda. O la prima (e unica?) Norma del tutto integrale (non solo alla lettera dello spartito). La Bartoli e i baroccari imbrogliano.

mozart2006 ha detto...

Assolutamente d´accordo. Le incisioni dirette da Bonynge erano musicologicamente esemplari e oltretutto accompagnate da note critiche che erano un modello. Altro che l´aria fritta dei booklet bartoliani! Una sola volta lui e la Sutherlando dovettero derogare ai loro principi. fu in occasione del disco di Semiramide, dove dovettero apportare diversi tagli perchè la DECCA esigeva che l´opera fosse contenuta al massimo in tre LP, paventando in caso contrario un insuccesso commerciale. Sono a conoscenza di questo particolare perchè me lo dissero il maestro e la signora personalmente, in risposta ad una mia domanda sull´argomento.
Saluti.

Semolino ha detto...

Tutte le scelte di Richard Bonynge et Joan Sutherland erano documentate da una bibliografia inoppugnabile, in un certo senso potremmo definire anche la Horne una filologa. Ma i baroccari sanno solo proclamare dogmi senza citare le fonti, inventano tutto ma di bibliografia non ne hanno. Dietro le scelte baroccare c'è il vuoto o al massimo il loro cattivo gusto.

Francesco Benucci ha detto...

d'accordo nell'identificare in Bonynge un grande filologo, ma ahimè oggi si crede sempre più che la musica e soprattutto la filologia musicale si faccia con seghe mentali e con astrusi ragionamenti metafisici...andate a vedere nei covi di musicologia dei vari atenei: questa è la situazione!

caro Duprez, il mio passato è da baroccaro. per fortuna sani mesi di purificazione e catarsi fisica e mentale mi stanno facendo rivedere la luce e soprattutto la normalità.
in quei mesi da peccatore ho visto e conosciuto quel mondo di pazzi ignoranti e presuntuosi: gente che considera l'alcina della Sutherland fuori moda, la Semele della Horne volgare e paperona, e che sbava davanti al coccodè della petibon e all'orgia infausta di Jaroussky, di Cencic (di cui preferiscono il rossini rispetto alla Horne o alla Dupuy!!!! orrore!!!!) o di Scholl.
la grande diffusione che tu e non solo lamenti sta nel fatto che il barocco cantato e non appare ad un orecchio abituato ad altri standard musicali più immediato e più facile rispetto ad altri repertori operistici: sembra strano ma è gente che si emoziona davanti ad un oratorio di Hasse o ad un'opera di Galuppi o di Porpora e che davanti ad altri capolavori come il Macbeth o i Puritani resta impassibile. MALA TEMPORA CURRUNT!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Cattivo gusto e ignoranza... Basta pensare a Lopez-Cobos (non di esatta estrazione baroccara, ma quasi), quando pretende di fare una Lucia di Lammermoor "autentica" e non varia nemmeno una ripresa o non inserisce nessuna cadenza nella scena della pazzia...perchè dice che non è scritto in partitura! O le variazioni che scrive Jacobs per le sue incisioni mozartiane (variazioni e cadenze dal gusto addirittura prebarocco). E vogliamo parlare di Minkowski? Da taluni è invocato come l'UNICO direttore che potrebbe dirigere il grand-opéra e persino il Don Carlos di Verdi: prendete la sua incisione dell'Inganno Felice di Rossini...col cembalo che suona e improvvisa dalla prima nota della Sinfonia siano all'ultima del Finale...come se fosse una partitura di Handel...e questo per un ragionamento da ignoranti in materia: Minkowski e altri baroccari ritengono che siccome nell'opera italiana il compositore doveva presenziare alle prime 3 rappresentazioni quale "maestro al cembalo" allora vuol dire che nel continuo il cembalo era onnipresente...vaglielo a spiegare che si trattava di un ruolo simbolico o che spesso il cembalo manco c'era (sostituito spesso dal fortepiano). E il Requiem di Verdi diretto da Gardiner? Sarebbe filologia far cantare Luca Canonici in quel Requiem? E la lingua in cui fanno esprimere i loro cantanti? E la voce fissa e spoggiata?

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Mozart2006: l'unico arbitrio in quella Semiramide, fu la trasformazione del finale (in effetti snaturato)...tutto il resto è fatto in modo perfetto: anche i tagli sono coerenti e non snaturano l'opera (come spesso capitava con altri "tagliator cortesi" che non avevano la più pallida idea di dove mettere le mani..e si limitavano a usare le forbici). Purtroppo la Decca non puntò su di una esecuzione integrale: peccato...ma Bonynge sapeva cosa e come tagliare (e secondo una prassi autentica).

Giulia Grisi ha detto...

Benucci!!!!!! cavolo......lei mi pare un penitente col cilicio!!!!
faccia attenzione sennò diranno che lei è un troll da noi inventato....hahahaha

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Dici il vero Francesco...molti (soprattutto gli ascoltatori più giovani) hanno veri pregiudizi verso l'opera italiana dell'800 e ritengono Biber o Marais compositori incommensurabilmente più importanti di Donizetti o Rossini, che vengono considerati "ciarpame" in certi ambienti (ascoltai una conversazione allucinante alla Ricordi di Milano). E perchè tutto ciò? Per l'induzione forzata di gusti attraverso una distorsione ideologica della fruizione musicale. Si è imposta l'equazione per cui l'opera italiana fosse musica di serie C, palestra di volgari effettacci, robaccia da ignoranti, da "beceri vociomani" (come scrive Mattioli), da gente che di musica non capisce un tubo e che aspetta solo l'acuto o il divo. Dall'altra parte invece, la musica barocca (rigorosamente "autentica", chic, appannaggio di complessi "filologici" e rigorosamente stranieri, ossia non contaminati dal belcanto) associata sempre a quella contemporanea, al teatro novecentesco e a Wagner. Non a caso il pubblico barocchista è quasi lo stesso che si pappa Janacek o Britten. Insomma L'800 andrebbe per costoro gettato nei cessi...oppure trasformato, barocchizzato, falsificato...con la scusa della filologia però! Pure io ho fatto molti ascolti baroccari...perchè purtroppo a volte non ci sono alternative: le opere di Handel ad esempio o quelle di Vivaldi. Il problema però, alla fine, non sta in queste interpretazioni (capirai..il Don Giovanni di Mozart vanta decine di incisioni..una più o una meno non fa certo danni), ma nel fatto che quelle che dovrebbero essere ipotesi di studio, vengono spacciate e imposte per verità incontrovertibili. Una fede, un'ideologia: entrambe cieche!

Gabriele ha detto...

Ma è proprio vero??Sono scomparsi i grandi musicisti??
Comunque grazie a tutti per i costruttivissimi e sapienti commenti.
Un saluto.
Gabriele

DavideC ha detto...

Ma sul serio esiste qualcuno chi snobba i 4 SUPREMI DELL'800: Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi? Non ho parole. Anzi, parolacce... E' anche vero che, se codesti saccenti "baroccari" con la puzza sotto il naso elevano il loro repertorio a superiore, tentando di imporlo, non per questo si deve scendere al loro livello e screditare quei grandi autori del periodo Barocco (che tra l'altro come avete detto vengono travisati e snaturati). Cioé a dire, non bisogna subire quel loro gioco di contrapposizione; la storia di un maestro come Claudio Scimone, estremo divulgatore di musica barocca, ma che al contempo ci ha regalato alcune delle edizioni più belle (e storiche in taluni casi) di opere belcantiste (dal Rossini serio all'Elisir d'amore) ne è un fulgido esempio a mio parere. Bisogna invece contrastarne le velleità artistiche e metterli al loro posto. P.S. Per G. Grisi: però, se Vostra Grazia me lo concede, con un post così la Bartoli me la manda in depressione!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Davide: penso che i gusti siano gusti, e non mi sento di giudicarli. Certo è ben diverso il preconcetto. A chiunque può piacere un'autore piuttosto di un altro, un'opera invece di un'altra, ciascuno può avere le sue personali "antipatie musicali" (io ad esempio non riesco ad apprezzare Chopin, mi annoia Strauss e il grand-opéra francese, trovo insopportabile Purcell e ritengo il Pelleas et Melisande di Debussy una tortura che l'ONU dovrebbe vietare), ma non mi sognerei mai di dire che queste mie antipatie siano verità assolute. I fan dei baroccari (o di certi repertori che vengono arbitrariamente considerati "più chic") invece affermano che l'opera italiana dell'800 sia robaccia da trogloditi e un qualsiasi vagito di Buxtheude vale più del Rigoletto...a costoro affianco pure i radical chic che si slanciano contro capolavori riconosciuti e li ritengono volgari..preferendo opere minori di autori minori (quasi sempre inonimo di mediocrità): arrivano a preferire Clementi o Salieri a Mozart, Pacini a Donizetti, Vaccai a Bellini e vanno in estasi per Apolloni o Soliva. Ripeto: i gusti sono gusti, ma spesso si ha la sensazione che taluni ricerchino la rarità per mero sensazionalismo e "per apparire più intelligenti". Contenti loro... Di certo non cambierei mai Rossini per Pavesi, o Mozart per Galuppi....

Ps: su Scimone però non sono affatto d'accordo. Ha fatto alcune cose buone, ma molte assai meno. Certo suo Rossini è ottimo (Maometto II, Ermione, Zelmira, Armida), ma la sua Italiana è bruttina (nonostante la Horne). Lo trovo un direttore pesante, dal gesto confuso, e di scarsa affidabilità (troppo incostante negli esiti). Permettimi di dire, però, che il suo Elisir d'Amore si segnala come uno dei peggiori dell'intera discografia...anzi, forse il peggiore in assoluto!

DavideC ha detto...

Per Duprez: eh, lo so che il buon Claudio non gode di ottima critica, in effetti anch'io devo ammettere che spesso le sue esecuzioni sono monocordi, quasi accademiche, e prive di quel QUID (alla Abbado per intenderci) che ti sospinge nell'Olimpo delle Bacchette (in particolare nelle opere serie stenta a evidenziare i passaggi drammatici, non gli vengono, il finale dell'Armida è bello musicalmente ma privo di quel "pathos collerico" che richiederebbe); sull'Elisir Le credo sulla parola, perché conosco solo questa e la versione di Serafin; però mi permetta di dissentire almeno in parte sull'Italiana (la mia opera preferita, il ne plus ultra dell'opera buffa): è vero che non è il top, ma è decisamente meglio delle precedenti l'ed. critica, Giulini-Varviso (il primo nell'Olimpo sudetto), quelle sì più pesanti, con gli ottoni che coprono costantemente gli archi, tagli a manetta, tempi lenti, nessuno degli strumenti minori che vivavicizzino l'esecuzione (però quant'era brava la Simionato!). D'altro canto, però, certo ha i suoi limiti... Ecco perché probabilmente nella discografia di quest'opera non ce n'è una veramente di riferimento (neanche Cappella Coloniensis/Ferro o La Scala,Rovaris sono da leggenda)

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Di Scimone apprezzo alcune cose, ma a volte è proprio pesante! Non è questione di accademismo. Trovo però molto più riuscito il suo Rossini serio rispetto a quello comico. La sua Italiana non mi piace per tanti motivi: l'orchestra è palesemente fuori forma, il suono è secco e brutto, la bacchetta è pesante come un macigno...la Horne è sempre splendida, e pure Ramey è splendido. Ma sconta il Lindoro di Palacio (che proprio non va), l'insignificante Battle e le caccole intollerabili di Trimarchi! Molto meglio quella diretta da Abbado (anche lui edizione critica e integrale). Per Elisir: quello di Scimone è uno dei peggiori in assoluto...ti consiglio tante altre edizioni, da Gavazzeni (con Valletti e Bruscantini) anche se ci sono diversi tagli, a Bonynge (con Pavarotti e Sutherland), a Viotti con la Devia, a Levine, a Morandi...

Francesco Benucci ha detto...

ebbene si, caro Davide, c'è gente e anche di una certa età, che davanti allo Stabat Mater di Rossini e quello di Scarlatti (fra l'altro una purga terribile!) cede al secondo, saranno gusti? bah, ma il loro atteggiamento assolutistico è davvero allucinante. sarebbe interessante capire il perchè di questo rifiuto di una fetta enorme della storia musicale con conseguente imposizione di modelli come già detto vuoti ed insensati: antitradizionalismo? voglia di originalità? trasgressione? desiderio irrefrenabile di attirare l'attenzione? ma chissene frega.

su scimone permettetemi di spezzare una lancia: avrà fatto cose più o meno belle (sull'italiana concordo appieno) ma è grazie a lui che grandi musiche italiane barocche e rococò sono giunte fino a noi e oltreututto e soprattutto senza quella squallida veste baroccara.

ahaha, cara giulia, io un troll inventato da voi? sarà...ma quanta fatica ad abiutare l'orecchio ad altre voci! anche se il cilicio e altri mezzi di tale natura per fortuna non li ho mai adoperati...sono finiti i tempi di Bernardo Gui, del Card. Bellarmino & co!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Verissimo, Francesco: ma continuo a credere che il problema non sia il fatto di preferire, ad esempio, lo Stabat Mater di Scarlatti a quello di Rossini o la Cleofide di Hasse alla Lucia di Lammermoor...non condivido, non so come sia possibile, ma accetto i gusti altrui. Il problema è quando questi gusti vengono assolutizzati e spacciati per verità incontrovertibili: quando si dice che la Cleofide di Hasse è musica, anzi Musica, mentre la Lucia è robaccia grossolana per una plebaglia ottusa di minus habentes e di fanatici ignoranti! Perchè è questo che gli intransigenti del barocco baroccaro (o quelli della musica del'900 e solo quella per carità!) vanno suggerendo. E' l'equazione per cui opera italiana dell'800 = immondizia! E' il fatto di autoescludersi certi repertori ritenuti non degni di persone civili e colte: a me piace sia Donizetti che Handel...che c'è di male? Eppure a volte si sentono conversazioni da brivido: sentii alla Ricordi due che dicevano come l'opera post barocca non fosse musica, e gli operisti fossero compositori di serie C, ignoranti e impacciati... Questa gente si merita la Bartoli (e in effetti ne parlavano un gran bene).

Ps: a favore di Scimone ne spezzo due di lance! Grandi meriti indiscussi...ha creato un ensemble esemplare nel barocco (Vivaldi ad esempio). Serio studioso e musicologo. Con alti e bassi come direttore però. E nell'opera salvo il Rossini serio e poco altro. Il mio discorso voleva riferirsi in particolare a quell'orrendo Elisir

Francesco Benucci ha detto...

beh, si, come direttore scimone non ha mai mostrato grande capacità: il suo elisir non lo conosco, ma l'italiana è un esempio chiaro e sufficiente.

brutto vizio quello dei baroccari: se andassi qualche sera alle serate del festival di San Maurizio di Milano deidicato alla musica antica e barocca, incontreresti gente davvero strana: ricordo di questa signora per cui la musica iniziava con Josquin Desprez (1440) e finiva con Baldassarre Galuppi (1770); tutto il resto era di serie C, era musica che non andava ascoltata! e un altro convinto che la vera musica, insomma la musica con la M maiuscola, finiva con Monteverdi: "io non ascolto il resto, musica da gente ingorante!, musica da massa!". sono due persone di circa 65/70 anni!!!
due esempi per spiegarti come funziona un po' nel mondo della musica barocca (e antica).

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Immagino, immagino Francesco...ne ho avute diverse testimonianze anche io: al MITo, ad esempio, dove se c'è l'opera è solo opera barocca, oppure alla Scala con la Didone Abbandonata di Cavalli...gente che sembrava "rapita in estasi" dal "belpianto" che proveniva dal palcoscenico! A me piace molto la musica barocca, ed è un peccato imbattersi così spesso in soggetti del genere. Il brutto è che non si tratta di passione sincera - secondo me - ma di moda e di atteggiamento!

Ps: al confronto di quell'Elisir, l'Italiana è un capolavoro :)

Francesco Benucci ha detto...

allora speriamo che come tutte le mode, anche questa sia passeggera!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Speriamo...speriamo...ma temo che il suo passaggio stia facendo come quello di Attila...non cresce più nulla dopo...

Francesco Benucci ha detto...

ahahahahahah caro Durpez, credo che tu abbia ragione! attila il flagello de Ddio!

Marianne Brandt ha detto...

Il nostro affezionato lettore Papageno, ha avuto difficoltà a postare un suo commento e mi ha gentilmente chiesto di inserirlo al suo posto per poter continuare il dibattito:

Come promesso, scrivo un commento all’articolo sulla signora Bartoli e su tutto quanto contenuto in tale post e commenti, a cui devo premettere di essere di difficile discussione e di annosi problemi.

Innanzitutto, noi non sappiamo praticamente come si cantasse prima del Garcia, ma possiamo ricostruirlo attraverso il Garcia stesso e a tutti i trattati e scritti precedenti. Di quelli citati da Semolino, esclusi i compositori, conosco bene il Tosi per averlo studiato e conosco indirettamente il Mancini; aggiungerei però anche il Maffei con la sua Lettera del 1562 e il Banchieri (con la sua “Cartella musicale” del 1614) per proprietà di fonti storiche e ovviamente il trattato del Lablache e del Duprez, che conosco per via indiretta.
Quindi con tutti i se ed i ma delle ricostruzioni, ma che comunque, con una ricerca condotta seriamente può trarne i giusti frutti!

Vorrei riscontrare una imprecisione quando si dice, in maniera riassuntiva, che la tecnica del Garcia e del Lamperti derivano niente meno che da quella dei castrati. Due punti su cui discutere:
primo, la scuola del Garcia esiste, ed è quella scuola nata dai suoi principi (ricordandoci sempre che Garcia padre era il mentore e Garcia figlio il trascrittore e scientifizzatore della tecnica del padre), come più tardi nacque la scuola del Delle Sedie, e prima ancora si aveva la Scuola del Porpora);
secondo, per quanto effettivamente la tecnica del Garcia sia debitrice della scuola dei castrati (Garcia padre studiò in Italia con Giovanni Ansani, tenore, erede della scuola del Porpora, nonché maestro del Lablache) mi sembra un po’ troppo riassuntivo riallacciare i castrati - Garcia con il Lamperti (1864, anno del trattato) per il solo fatto che in quei vent’anni di distanza tra i due trattati succedono intere rivoluzioni vocali che porteranno a tutti gli autori dei trattati di canto della seconda metà del XIX secolo (Marchesi, Panofka, Panseron, Shakespeare) che la tecnica vocale è in pura decadenza. E per questo sarebbe altrettanto utile approfondire il rapporto tra le allieve cantanti e le maestre sopracitate che stanno proprio a cavallo di questo turbolento mezzo secolo!

Continua...

Marianne Brandt ha detto...

...

Detto questo, i trattati antichi danno suggerimenti su come cantare e come dice Semolino, tutti parlano in modo diverso, ma dobbiamo dedurne che il risultato fosse pressoché simile.
A mio avviso, il trattatista che risulta più chiaro di tutti è il Tosi, e mi piacerebbe dopo una piccola digressione, valutare la voce della Bartoli alla luce dei suoi suggerimenti contenuti nel trattato, ed alla luce delle mie conoscenze da studente di canto.

La digressione consiste nel valutare cosa dicesse il Garcia della tecnica vocale precedente al suo trattato.
Nella seconda parte del suo trattato (non si capisce il motivo per il quale la Ricordi non la pubblichi – a mio avviso la più importante delle due) tratta della parola unita alla musica, dando utilissimi e direi essenziali regole per cantare corretto (o almeno, secondo le regole del belcanto). La parte riguardante le vocali tratta su come arrotondarle e si riscontra che questa usanza si abbia già dai tempi del Tosi e Mancini; possiamo ben capire come la vocalizzazione non arrotondata nel canto di lingua italiana operata da cantanti moderni sia totalmente anti filologica. Questo un primo ed essenziale punto, a cui ne seguiranno altro con il mio ulteriore studio del Garcia, di cui l’edizione Zedde risulta l’unica completa in commercio ma un po’ costosa.
Ci tenevo a sottolineare il canto di lingua italiana, perché nel post appare un problema odierno molto importante e citato in un articolo da Bruno Baudissone: detti studiosi francesi e inglesi operano una riscoperta del canto antico italiano, ma con loro grandissima pecca, applicano una lettura scorretta in nome anche di una prosodia completamente diversa sia tra le diverse lingue sia tra i periodi storici della musica italiana. E questo è un demerito non solo loro ma anche di noi italiani che non sforniamo critici e studiosi competenti!

Torno adesso alla valutazione della Bartoli. Dirò innanzitutto punti positivi della sua persona: grande musicalità (una delle poche cantanti che esegue tutte le colorature a tempo, senza ritardi con l’orchestra), grande carisma, e grande volontà nel recupero della musica antica. I punti di debolezza sono tanti e coprono le più molteplici sfere: da un punto di vista vocale, la signora Bartoli è una cantante comprimaria buffa, sia per grandezza e timbro vocale, sia per espressione e accento. Nei trattati antichi, si riscontra come le voci dovessero effettivamente aver volume ridotto nel canto da camera (per buona pace di chi vuole mettere in scienza il Tancredi e Clorinda in teatri immensi!), ma allo stesso tempo tali voci potevano essere prestate per il canto nelle chiese che richiedeva un certo volume, ed il buon cantante era in grado di sapersi adattare alle esigenze! Quindi, la Bartoli parte effettivamente claudicante da questo punto di vista!
Da un punto di vista della vocalità c’è tanto da dire: a mio modesto parere, la Bartoli ha una tecnica lirica moderna piegata al canto antico moderno, rimanendo a metà tra le due scelte. Questo porta ai seguenti problemi tecnici: spesso i fiati sono corti, e capita spesso di sentire dopo tutta una lunghissima linea vocalizzata l’ultima sillaba buttata e spezzata dalla mancanza di fiato; altro problema è la vocalizzazione che spesso parte ed è buona, ma altrettanto spesso è un uniforme ga – ga – ga, cosa deprecatissima dal Tosi! Inoltre, espressivamente la Bartoli fa facce, faccine e smorfie, quando i castrati si allenavano davanti allo specchio per più ore al giorno per evitare tali espressioni innaturali ( e mi viene da sorridere quando penso che il mio maestro mi corregge quando canto persino alcune grinze sulla fronte, mentre una Bartoli ed un Genaux, cantante professioniste, fanno di tutto e di più).

Così, carissimi curatori e lettori del Corriere stanno le cose…

Papageno

Anonimo ha detto...

Salve, il mio commento arriva in ritardo, l'articolo è stato pubblicato già diverse settimane or sono ma l'ho letto solo oggi, spero abbiate la pazienza di rispondermi. Intanto vi ringrazio perché è tutto veramente molto interessante, inoltre condivido in gran parte le vostre posizioni quindi per me è sempre un piacere leggervi. Ho letto anche l'accesa discussione sui "baroccari" che fa seguito all'articolo, e volevo porvi una domanda. A parte la Bartoli e a parte tutte le escursioni dei suddetti "specialisti" nel repertorio operistico sette-ottocentesco, vorrei sapere cosa pensate dei "baroccari" quando si cimentano nel repertorio sacro, nella fattispecie in Bach. C'è un gran fiorire di incisioni bachiane negli ultimi anni, i nomi degli interpreti più noti sono, per fare qualche esempio, Gardiner, Herreweghe, Koopman. Hanno inciso tutti e tre l'integrale o quasi delle cantate e degli oratori di Bach, ricorrendo molto spesso a solisti falsettisti (uno di questi, assai famoso, è Scholl). Naturalmente tutto all'insegna della "prassi esecutiva filologica". Cosa ne pensate? Hanno fatto qualcosa di buono oppure no, secondo voi? E come trovate l'uso dei falsettisti in Bach?? Io devo ammettervi che Gardiner e soprattutto Herreweghe a me piacciono molto, in particolare per il modo in cui trattano i cori, e trovo molto bella la voce di Scholl in questo repertorio (non fucilatemi! De gustibus...). Ciononostante vorrei tanto sentire il vostro parere. Grazie, un saluto e vivi complimenti per il blog, continuate così!

Filippo Carraro ha detto...

Personalmente, adoro Cecilia Bartoli. Mi rendo conto delle intenzioni per lo più commerciali dei suoi album, tuttavia non riesco a fare a meno di comprarli, di sentire la sua voce, la dizione marcata, i sospiri, i gemiti, i filati, le vorticose agilità... I suoi progetti sono sempre più interessanti e, personalmente, non l'ho MAI sentita cantare male. Secondo me, indipendentemente da chi abbia cantato in passato, o per chi/per cosa sia stato scritto questo o quello, la Bartoli è in assoluto la migliore cantante vivente.
Tuttavia rispetto e apprezzo davvero i vostri commenti, da persone estremamente competenti.