giovedì 12 maggio 2011

Turandot in Scala: secondo cast.

Qualche “Cheese!”. Infiniti click. Svariati flash. Un pugno di spettatori abbandona la sala. Due scaltri rumeni ci provano con un paio di turiste francesi, mentre bimbi burrosi stretti in t-shirt attillate ricevono un krapfen dalle mani della madre. Frotte di giapponesi dallo sguardo sperduto mi domandano, dopo il curtail call, se lo spettacolo è davvero finito. Una badante bulgara stringe amicizia con una collega russa da cui prende il coraggio per aggirare la blandizia delle maschere e immortalare così la scenografia. Giovani coppie in abito da sera si scambiano effusioni, le più discrete riparate dal buio della galleria, le altre – forse più attente allo spettacolo – durante gli intervalli, nei pressi della toilette. Infine una ragazza inglese, incontrata in coda la mattina, mi si avvicina nei pressi del guardaroba con un sorriso che accompagna un travolgente “You’re so lucky to live here!”. Difficile a credersi. Perché non siamo finiti per caso in qualche bizzarra sagra della balena nell’Oregon, o in uno dei tanti eventi immortalati dalla penna geniale di Foster Wallace, ma semplicemente abbiamo assistito alla terz’ultima rappresentazione di Turandot, l’unica con il secondo cast al completo. E questo è il pubblico – simpatico e cordiale, per la verità – che ne ha decretato il trionfo.

Unico vero interesse dell’upgrade, il test di congruenza. Ossia verificare se fosse possibile o meno ripetere la prova scadente della prima compagnia, graziata ricordiamo per ovvi motivi ospedalieri: poco c’entravano i soliti “infortuni” di sorta quanto invece il buon adagio per cui alla croce rossa, sappiamo bene, non si spara. Impossibile aspettarsi peggio dunque, e così è stato. Un’esecuzione largamente insufficiente ma senza dubbio superiore a quella pessima inaugurale.
Al podio va il Razzie, il contro Oscar. La direzione di Daniele Callegari tenta di disegnare una lettura mediterranea – e quindi in un certo senso tradizionale – in totale contrasto con quella proposta da Gergiev, che rimaneva certo sopra le righe, esaltando forse fuori misura la grana orchestrale, ma sempre trovando una compattezza di suono che invece è preclusa al patrio maestro. Callegari cerca il volume e l’effettaccio di “sensazione”, prova ne è il labiale con cui chiede al coro – dopo gli enigmi – un’intensità fuori luogo, ridondante rispetto al fulgore già presente in buca, mentre poco prima si perde nel nulla l’entrata in scena della principessa. L’agogica canta poi il suo requiem: l’accompagnamento ai momenti solisti non solo è fiacco e poco sostenuto, ma è addirittura fuori tempo (scollata di chissà quante battute l’aria di Calaf al primo atto). L’entrata degli archi nel “Nessun dorma” è buttata via, senza cavata né trasporto. Addio pathos, dunque.
Va però detto, se ce ne fosse ancora bisogno, che buona parte del flop è da imputare a un’orchestra sempre più svogliata, disattenta, forse ai minimi storici. Non si contano le strombazzate degli ottoni nel secondo atto, gli attacchi più volte sporchi, i fiati orridi (calante e fisso il clarinetto che accompagna l’uscita di scena di Liù). Come una buca del genere, altro che Donizetti e Verdi “da galera”! Qui non si cava fuori manco l’inno di Mameli…
Nel comparto vocale si distingue – per meriti relativi più che assoluti – la Liù di Maija Kovalevska, recente Mimì al Met al fianco di Vittorio Grigolo e prossima Tatyana a Vienna. A onta di un’emissione poco rifinita in zona centro-acuta – quella che in gergo operistico siamo soliti definire “carta vetrata” – che inficia la pur indubbia gradevolezza del timbro e vanifica la naturale ampiezza del mezzo, l’invocazione del primo atto è risolta discretamente, con buona proiezione e compostezza. Le riesce poi bene l’attacco in piano su «LIU non regge più», ma una certa anonimia di fraseggio, unita a un paio di acuti ghermiti («ma se il tuo DESTINO») e a un generale deficit di morbidezza, compromette un poco l’esecuzione. Molto peggio l’aria bipartita del terzo atto. A una prima parte – “Tanto amore segreto”, sostenuta solo dal primo violino – in cui la linea vocale arranca perché sempre più stridula e aspra, succede un “Tu che di gel sei cinta” monocorde e inespressivo – salvo un paio di accenti pregevoli: «io chiudo stanca gli occhi» – proprio per quell’effetto “gesso sulla lavagna” che nega quella soavità di emissione che è causa e conseguenza di un buon legato. La memoria non può non ritornare dunque ai secondi cast domenicali con le Liù di Gabriella Tucci, soprano allora considerato di terza fila. Anche questa volta, si faccia pure l’usuale confronto e se ne traggano poi le dovute conclusioni.
Una principessa per essere incisiva e meritare il dovuto plauso popolare, almeno secondo la partitura di Puccini, dovrebbe tirar fuori le peculiarità primarie di un soprano drammatico, ovvero saper padroneggiare la parte bassa del pentagramma, zona in cui compaiono alcune frasi rilevatrici del sostrato tragico del personaggio. Ma Lise Lindstrom non è di tessitura spinta, tutt’al più un soprano lirico da Manon Lescaut o Butterfly. Vediamo qualche dettaglio. Già l’aria di sortita, che risalta e si struttura proprio per un’inconfondibile intrecciarsi di linee sinuose e maestose, si sfilaccia: ne soffrono così sia lo sviluppo narrativo (muto «l’orror di chi l’uccise / vivo nel cuor mi sta») che l’efficacia drammaturgica. Prima ottava a parte, il centro e primi acuti sono a fuoco, forse leggermente metallici e spinti, mentre in alto («e quel grido»; «e sfidasti inflessibile e sicura») siamo ai limiti dello strillo. Con questi presupposti, passano regolari il secondo e il terzo enigma, mentre il primo è farfugliato nell’attacco («Straniero ascolta») e stimbrato nei versi successivi. Va da sé che ne vien men l’autorità. Sono azzeccati per onor del vero la presenza scenica e un paio di acuti ben interpolati. Insomma, una Turandot migliore della collega della prima compagnia, ma lo stato della consolazione che ne può derivare rimane certamente al di sotto della più scheletrica delle magrezze.
Senza attenuanti il principe ignoto di Stuart Neill, che ha ragliato tutto il pomeriggio. Manca subito di ampiezza e fluidità nella replica a Liù del primo atto, che nelle corde del tenore americano diventa sforzata e sferzata in acuto, zona in cui la voce comincia a ballare e assomigliare ai guaiti di Josè Cura. Al centro non c’è alcuna intenzione di porgere la frase, la scansione è metonimica e frammentaria. Le smorzature risentono di un tecnica di appoggio poco rifinita, che sbianca il suono e lo rende flaccido, eventualità grave per chi intenda emergere con un personaggio che fa della vigoria e della costanza la propria ragion d’essere. Stessa solfa nel “Nessun dorma”, risolto con attacchi sul passaggio berciati («guardi le stelle») o con momenti di pura apnea («no, no»!). Difficile dire se sia meno oneroso per le orecchie sentire Neill o Berti, ovvero il canto sbraitato o calante. Personalmente, soffro meno con le urla…
Quasi ci fossimo trovati in una sala anatomica, Marco Spotti esibisce con fierezza il suo stomaco. Caricaturale in questo senso il delirio che accompagna la morte di Liù nel terzo atto: cavernoso e stonato. Un Timur che sembrerebbe rimandare alla solita scuola slava dei bassi dell’oltretomba, se non fosse… italiano! Ennesimo epigono dell’ultimo Ghiaurov e dell’inossidabile Burchuladze, è segnale dell’avvenuta colonizzazione da est. Prova ne è il “canto” di tanti colleghi nostrani, da Furlanetto a Colombara. Nomen omen quest’ultimo che peraltro riassume bene le fattezze dell’orrenda schiatta.
Non pervenuto il terzetto delle maschere, anche se per onestà dovremmo dire “sestetto di mimi” considerata l’impossibilità di distinguere – se non per le differenti doti acrobatiche – i tre ministri dal trio di alterego che ne scandisce ambizioni e desideri. Se dal vuoto emergono giusto un paio di acuti peregrini dei due tenori, il cancelliere Ping di Angelo Veccia è quasi molesto all’ascolto per l’emissione costantemente contratta, dal suono che muore in bocca perché basso di posizione e tutto indietro. D’altra parte ben ricordiamo il suo compare Alfio nella passata stagione veneziana…
Sul pubblico che ne ha decretato il successo, ho già detto. Come più volte ci siamo soffermati sul progetto frankensteiniano della dirigenza della Scala di trasformare l’opera in un elitismo di massa che è più realtà che ossimoro. Il pomeriggio a teatro pare dunque strutturarsi all’insegna di una nuova polarità: buona alternativa al’Ikea o all’Oviesse per certuni, l’evento della vita per altri. Qualcosa in meno di una conquista del forte, ma senza dubbio qualcosa in più del vecchio “Io c’ero”.



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